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Giovedì, 28 Marzo 2024
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'Accabadora' in Guanda, Cabassi: “Modo per riflettere su vita e fine vita”

Lo scrittore Cabassi concede le sue riflessioni a ParmaToday sul libro della Murgia Accabadora in vista dell'incontro in Guanda con l'attore Pirisi per parlare del ruolo di accabadoras e attittadoras nella Sardegna del passato

Bonaria Urrai è la mano ultima che scende su chi sente che la sua vita è finita anche se il cure batte ancora. E’ la giustizia in una Sardegna ancestrale fatta di leggi non scritte, dignità e coraggio, anche nel scegliere quando la propria ora è arrivata. Rileggere oggi dopo cinque anni o scoprire per la prima volta Accabadora di Michela Murgia significa calarsi in un mondo apparentemente lontano fatto di gesti e ritualità quotidiane dal significato che sfiora la sacralità, come per il pane della sposa preparato con cura sino al più piccolo dettaglio e la cui caduta è segno nefasto nella vigilia delle nozze. “Fillus de anima. E’ così che chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai”. Da questo incipit, dall’abbraccio di una donna a una figlia solo biologicamente non sua ma considerata tale al punto da evitare l’obbligo di manifestarne l’affetto a parole, si sviluppano le vicende attorno alla protagonista, che il lettore segue passo a passo riuscendo a immaginarla mentre si copre con quel suo scialle nero e cammina spedita,  vivendo con lei il dispiacere nel vedere le sofferenze altrui e la determinazione di chi è consapevole a pieno del proprio ruolo. Partendo proprio da quest’opera, con la quale Michela Murgia ha vinto il Premio Campiello nel 2010, l’associazione Vogliadileggere ha organizzato un incontro, previsto nella Biblioteca Guanda il 20 febbraio alle 17, per approfondire la figura di accabadoras e attittadoras con l’attore Antonio Pirisi e lo scrittore Andrea Cabassi, che alla Sardegna ha dedicato il suo primo libro, Manifattura Tabacchi 1948.

Per capire più a fondo cosa rappresentasse nella comunità sarda del passato la figura dell’accabadora, è interessante anzitutto soffermarsi sul suo significato, sulla sua origine, che deriva dallo spagnolo acabar, “finire, ma è un finire in un duplice senso perché l’accabadora finisce una vita che è già finita, abbrevia l’agonia di chi sta morende chene morrere, sta morendo senza poter morire. L’accabadora è colei che interroga e si interroga su questo stato paradossale di sofferenza senza speranza alcuna di chi vorrebbe fare il passo verso l’oltre ma, per una serie di motivi è bloccato, non può farlo – spiega Andrea Cabassi –. Il contesto è quello di una Sardegna ancestrale, ancora rurale molto diversa da quella che viene descritta da autori come Flavio Soriga che descrivono una Sardegna che potremmo definire post-moderna e che ha Cagliari come protagonista e capitale metropolitana, una Cagliari che già il grande Sergio Atzeni aveva descritto ne Il quinto passo è l’addio. Il contesto è quello di una Sardegna pre-industriale, la Sardegna del 1955. Non è un caso che la Murgia indichi questa data. Secondo le ricerche di Dolores Turci studiosa di origini romagnole, ma sarda d’adozione, l’ultima comparsa di una accabadora in Sardegna risale al 1952 ad Orgosolo. In questa Sardegna e nel romanzo sono presenti, non solo l’accabadora, ma anche le attittadoras. Le attittadoras sono le prefiche, coloro che cantano l’attittu, il canto che accompagna la veglia funebre e che riassume la vita del morto. L’attittu, in origine, è il canto che la madre recita al bambino durante l’allattamento per accudirlo e farlo mangiare. In questo caso è come se le attittadoras si cingessero ad allattare il morto che sta passando ad una nuova vita. Si tratta, dunque, di una Sardegna matriarcale in cui la nascita e la morte hanno come protagonista la donna. Sottolinea l’importanza del matriarcato la stessa Murgia in un altro suo libro, Viaggio in Sardegna, nell’ultima sezione intitolata Femminilità”.

Il cardine del libro è il ruolo di Bonaria Urrai nella comunità di Soreni, da un contesto di oltre mezzo secolo fa reso attuale perché affronta il tema del fine vita, con grande delicatezza ma anche con forte tensione etica secondo Cabassi. “Ci sono due momenti in cui l’accabadora si rifiuta di porre fine a una esistenza perché non sussistono le condizioni del morrere chene morrere. La prima è quando Bonaria, l’accabadora, si reca a casa della famiglia Vargiu chiamata dai familiari di Ztiu Jusepi Vargiu senza il consenso di quest’ultimo. Quando egli la vede dice: “Chiamata ti hanno, alla fine…”. In quel caso Bonaria maledice tutta la famiglia per essere stata chiamata per nulla perché il capofamiglia non è nella condizione di chi sta morendo senza morire. Il secondo momento è nel primo incontro che Bonaria ha con Nicola Bastìu  a cui è stata amputata un gamba dopo che si è preso un fucilata in occasione di un tentativo di vendetta a causa di uno spostamento di confini. Sdegnata Bonaria rifiuta di accettare la proposta di Nicola perché non si trova nella condizione di chi sta morendo senza morire. Anche se l’amputazione della gamba è stata una amputazione di tutta la sua esistenza. Solo in un secondo momento Bonaria accetterà pensando al marito non ancora marito che era partito per la prima guerra mondiale e che le aveva chiesto se lei lo avrebbe accettato anche mutilato. E’questo splendido, dal punto di vista dell’intreccio, sovrapporsi di tempi che spinge Bonaria ad un gesto che avrà conseguenze drammatiche per molti dei protagonisti del romanzo”.

Ma al di là della storia narrata, della sua potenza, del suo incedere portando il lettore in una dimensione improvvisamente molto famigliare anche se mai conosciuta in prima persona, ciò che crea una sorta di empatia è il modo in cui è scritto Accabadora, un modo che trascina e tiene legati, poesia in prosa, come nell’incipit del dodicesimo capitolo: “Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima”. “E’ prosa poetica vagamente divagante e fortemente evocativa – sottolinea Cabassi –. Esempi di un periodare del genere ce ne sono tanti nel romanzo. Dove si coniuga il poetico con l’autentico.  In un suo saggio intitolato Le eredità deleddiane e Michela Murgia, contenuto nel libro Isolitudine. Scrittrici e scrittori della Sardegna, la critica letteraria Laura Fortini scrive: ”Questioni che toccano il cuore dell’umano vivere e che Michela Murgia affronta con uno stile narrativo drammaticamente proteso allo svolgersi della storia per blocchi compatti, scanditi da paragoni che si susseguono con ritmo serrato, a volte quasi baroccamenti ridondanti e un gusto delle rime interne che ricorda la cantabilità dei racconti orali e dei detti proverbiali”.  Rileggere oggi Accabadora e seguire l’incontro in Guanda è un’occasione in più non solo per scoprire e vivere l’isola e i suoi riti densi di significato ma, come sostiene Cabassi, riuscire anche a “penetrare gli usi e i costumi di una Sardegna che, forse, si ritrova solo nelle zone interne in un periodo in cui la globalizzazione tende a rendere tutto uguale a tutto. E, al di là della Sardegna, permette di riflettere su un tema universale: quello della vita e del fine vita, quello della qualità della vita. Permette, anche, di riflettere sul significato di essere madre, sul ruolo materno sia esso naturale o adottivo, permette di riflettere sul senso che ha il prendersi cura. Tematiche che vanno non solo dal locale al globale, ma soprattutto da locale all’universale. E questo è il ruolo della letteratura. Quella vera”.

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