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"Sembrava l'Apocalisse: ho pianto al telefono con il figlio 18enne di due pazienti Covid"

La toccante testimonianza di Simona, medico anestesista rianimatore arrivato da Genova a Parma: "Voglio dimenticare le brutte notizie date ai parenti"

C'è anche Simona tra i 16 medici volontari arrivati in Emilia grazie al bando che ha permesso alla Regione di dotarsi di un maggior numero di personale da schierare in prima linea in quella che è una guerra insolita, strana, agghiacciante. ‘Surreale’, per usare un termine che il medico anestesista rianimatore utilizza nel raccontare la sua lunghissima giornata di lavoro. “Vengo da Genova, sono arrivata il 2 aprile e devo dire che la situazione si è presentata abbastanza critica. Magari non come all’inizio della pandemia, ma sicuramente c’è stato un turnover importante di pazienti che entravano e uscivano dalla terapia intensiva. Una situazione pesante da sostenere. Il mio mandato finisce il 21 aprile, speriamo di aver dato il mio contributo”. 

Simona, può raccontarci queste settimane?

“Ho fatto due giorni di affiancamento quando sono arrivata, poi in base ai turni mi recavo in Rianimazione. Devo dire grazie ai colleghi che mi hanno introdotta nel reparto Covid. C’è una lunga preparazione che comprende più fasi: la nostra vestizione è assai complessa, precede l’ingresso nel reparto. Si prosegue, una volta dentro con la visita a tutti i pazienti e, una volta finita ci si sveste in maniera molto attenta e si va a riferire il tutto, una relazione ai responsabili”. 

I dispositivi sono sufficienti?

“Sì. I dispositivi  sono completi. Noi utilizziamo un doppio guanto, gli stivali o i calzari a seconda di quello che si vuole utilizzare. Sono disponibili entrambi, lo voglio dire subito. Abbiamo tute impermeabili con il cappuccio oltre chiaramente alle mascherine. Poi, anche qui possiamo scegliere se utilizzare il visore o la maschera”.

Cosa porta via da Parma?

“Una storia che mi ha segnata. E’ stato il primo paziente che ho curato. Si trattava di un uomo appena entrato in Rianimazione. Anche la moglie era positiva ma non aveva bisogno di cure ulteriori. La sua situazione era abbastanza sotto controllo. In questi casi bisogna avvertire i parenti ed è toccato a me. Io ho telefonato al figlio. Dall’altra parte del telefono c’era un ragazzo, una voce giovanissima. Avrà avuto 18 anni ed era rimasto da solo. Non mi aspettavo di sentire una voce così giovane, non ero preparata a parlare in maniera semplice e rincuorante a un ragazzo. Ho cercato di dominare l’emozione,  gli ho detto però che il padre era peggiorato e che ci saremmo sentiti ogni giorno per gli aggiornamenti. In realtà lui è stato molto pacato, gli si è rotta la voce per l’emozione. Normale, comprensibile. Piangeva anche se non sembrava, ho pianto anche io”. 

Immagino vi sentiate ancora per gli aggiornamenti.

“Sì. La madre sta meglio, il padre ha avuto bisogno di cure superiori e specifiche. Adesso è in miglioramento, anche se vive una fase critica. Grazie all’intubazione e al supporto del ventilatore si è ripreso. Questa è una patologia molto lunga e le due settimane non sono state sufficienti nel paziente per debellare il virus”.

Come comunicate con i familiari?

“Ognuno di noi durante il turno trova il momento adatto per parlare con i parenti dei pazienti. Di solito si fa la chiamata informativa appena si ha un attimo, dopo la visita di routine. Si rimane sempre in contatto con i pazienti e con i familiari. Alle volte siamo costretti a fare da tramite perché sono intubati e ventilati, ma lo facciamo con piacere. Ad esempio mi è capitato che ci fosse una persona vicina a me che si era svegliata. Il figlio mi aveva chiesto di lasciargli un messaggio registrato. L’ho fatto”

Quando finirà questa guerra?

“Difficile dirlo, da quando sono arrivata ho visto una riduzione degli ingressi. Ma non è così semplice. Le persone che ci sono da prima di me hanno vissuto la situazione peggiore, prima che la protezione civile facesse il bando c’era la fila nei reparti. Adesso va meglio”. 

Cosa porterà dietro di questa spiacevole situazione?

“E’ un’esperienza surreale. All’inizio, quando non ero neanche a Parma, mi sembrava l’apocalisse. Posso confermarvi che quando sono arrivata ho percepito la stessa situazione. Voglio dimenticare le brutte notizie date ai parenti. Mi rimane invece l’esperienza da trasmettere ai colleghi, sono stata accolta come in una famiglia. Durante il giorno non avevo distrazioni, se uno torna a casa propria tende a pensarci un po’ meno. A me hanno dato un appartamento, non ho le mie cose qui e naturalmente la mente torna su alcune scene. Faccio turni di notte e di 12 ore al fine settimana. Sei ore invece nei giorni feriali. La stanchezza si fa sentire, l’unica cosa che aiuta a dormire è quella” .

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