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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca Golese / Strada Baganzola

Sala gremita per Abate al Deledda: “Scrittura come riscatto sociale”

Francesco Abate si racconta al Deledda, in un intenso incontro partendo dal suo ultimo libro tra ricordi e riflessioni, solitudine dell'individuo e di una terra, pensando la scrittura come mezzo per dar voce agli ultimi

Difficile rendere a parole ciò che Francesco Abate è riuscito a trasmettere al Circolo Deledda nel corso dell’incontro con Andrea Cabassi, Antonio Pirisi e Fabrizio Leccabue in occasione dell’uscita di Un posto anche per me. Non una presentazione fine a se stessa, un’occasione preziosa per arrivare al cuore di ognuno dei presenti, attraverso il filo rosso dell’ultimo libro uscito per Einaudi, passando per Chiedo scusa, con gli spunti offerti dalle vite degli altri, e dalla sua. Francesco Abate parla senza filtri, racconta di quei tanti Peppino che ha conosciuto e che ha voluto trasformare per una volta in protagonisti, per fare giustizia dando loro una voce, quella che troppo spesso non hanno usato preferendo il silenzio. Una mescolanza di ricordi dell’infanzia e di episodi che hanno lasciato un segno e che ora sono tornati prepotentemente alla ribalta chiedendo forse un finale diverso. Come quel compagno di classe che viveva in un corpo troppo grande, deriso dagli altri bambini per quei suoi vestiti lisi, quel bambino che aspettava di ricevere il pacco con le scarpe donato alle famiglie povere, quel bambino che invece del Buondì Motta era costretto a mangiare per merenda una rosetta senza mollica con il minestrone del lunedì centellinato dalla madre per farlo durare tutta la settimana. Distinzioni sociali che per un bambino pesano e decretano a volte un destino di solitudine e esclusione, specie in scuole come la Sebastiano Satta dove si incrociavano realtà diverse, dai figli delle famiglie bene di viale Merello ai bambini nati e cresciuti a Marina o Stampace, per i quali la maestra Luigia riservava ancor maggiore severità di trattamento nelle punizioni. O episodi come quello in cui un altro Peppino si sentiva così solo che aveva fatto di tutto per entrare in quella discoteca tanto di moda nella Cagliari degli anni Novanta, Linea notturna, dove con il suo abbigliamento fuori dal contesto, con pantaloni vecchio stile e la giacca a coste di velluto si era avvicinato a un gruppo di ragazzi e ragazze che ridevano e bevevano per fare una domanda spiazzante che ha avuto risate scroscianti come unica risposta: “Posso diventare vostro amico?”.

Quelle parole e quell’aspetto dimesso e triste Francesco Abate non li ha mai dimenticati: è per lui, per quel vecchio compagno di classe e per gli altri Peppino che ha incontrato nella sua vita che ha scritto Un posto anche per me, un modo di vendicare quel dolore, rendendoli finalmente protagonisti in primo piano di una storia verosimile e che ricalca quasi interamente la realtà specialmente nel caso di Marisa, che dopo ogni presentazione si accerta che Abate abbia raccontato la sua storia ai suoi lettori. Una profonda connotazione nei luoghi sempre presente nelle opere di Abate, oltre a quella pietas nei confronti di Peppino che secondo Cabassi permette di dargli una più profonda umanità. Dare voce agli ultimi, riscattarli idealmente pensando di riuscire così ad alleviare le sofferenze patite spesso per una vita intera, questo è uno dei motivi che hanno spinto Abate a scrivere, utilizzando le sue doti di fine narratore valse l’onore di essere paragonato a Sergio Atzeni per diventare giornalista e scrittore, seguendo quella sorta di dovere morale portato avanti ancor prima dal padre come avvocato del sindacato. “Insegno a rimanere a galla. Che è il mestiere più bello del mondo”. Finisce così Chiedo scusa, ed è da quella frase che Andrea Cabassi coglie nelle sue riflessioni la chiave per comprendere a pieno il senso ultimo del lavoro di Abate. “A un certo punto della mia vita mi sono chiesto perché lo sto facendo, poi ho capito che cerco di aiutare gli altri a stare a galla affinchè gli altri, un giorno, aiutino me”. E in tutto questo è inevitabile parlare della condizione della Sardegna intera, per l’isolamento  e la solitudine su cui lo stesso Abate riflette stimolato dagli spunti offerti dal recente articolo apparso su Il Sole 24 Ore a firma del direttore Roberto Napolitano. “Guarda che la solitudine della Sardegna oggi è più amara e profonda di quella della Calabria e della Sicilia, non ha treni, non ha strade, non ha lavoro, paga cara l'energia” dice Pino Aprile, a cui fanno eco le parole di Mario Sechi che ripercorre le direzioni diverse prese dai suoi cari, tra Milano, Londra, la Germania e il Brasile, pensando che il problema non stia nella partenza ma nel non ritorno, che non solo priva l’isola di una ricchezza come le professionalità specializzate ma che ricade ulteriormente su chi, invece, resta.  Storie che, però, non devono portare a confusioni. Da una parte rimane l’annosa incapacità della classe politica che ha favorito l’isolamento per le falle nei trasporti dal ferroviario all’aereo con la farsa della continuità territoriale, passando per il mare e le inaugurazioni di navi con tanto di vestito tradizionale e ballu tundu.

Dall’altra rimane invece la volontà di essere cittadini del mondo e spostarsi scegliendo il proprio destino, o di restare facendo parte di quelle tante realtà che convivono in una terra che più che un isola è un continente, come recita uno slogan affisso all’aeroporto di Elmas. L’incontro al Deledda è un viaggio incessante, un collegamento continuo tra i libri, i luoghi e i ricordi di Abate nel ripensare anche a quel lungo periodo buio, gli anni Settanta e Ottanta della sanità sarda, quando partire era la sola possibilità per sperare di sopravvivere affidandosi alle cure mediche di specialisti del Nord Italia. E anche se il ricovero era gratuito, le spese della famiglia che si faceva carico di quei viaggi salva vita erano così ingenti che spesso ne decretavano la rovina economica, con casi in cui per disperazione si era costretti a vendere il gregge rischiando di finire in ginocchio per stare vicino al figlio malato. Lo stesso Abate ha passato sulla propria pelle ciò che significa affrontare un trapianto per una malattia al fegato diagnosticata sin dai due anni di vita. Sofferenze acuite dal vedere il proprio padre ridursi a uno scheletro dalla pelle e dall’aspetto inconfondibili per un malato di epatite ma sempre forte nonostante le derisioni di chi lo apostrofava con ignobili soprannomi, sino agli ultimi giorni dei suoi 53 anni quando si è spento dicendo sino all’ultimo e con un sorriso ‘Sono un uomo fortunato’. “Avere qualcuno che ti sta vicino quando passi tutto questo significa imparare a rimanere a galla”. Trovare il modo di resistere, di andare avanti e lottare con tutte le forze per farcela, è questo lo spirito che ha guidato Abate in quei momenti difficili quando i medici gli davano un anno di vita, con le due operazioni subite per il trapianto di cui una senza anestesia perché il suo corpo debilitato non avrebbe potuto reggerla e l’estrema unzione, raccontati nel suo Chiedo scusa. “E’ rinascere grazie a un dono. Quello che ho ricevuto io è arrivato da Cinzia, 38 anni e due figli, morta per un incidente ma consapevole già dai 19 che quando la sua vita sarebbe finita avrebbe voluto donare tutto di se. Il senso è trovare il modo di ripagare tutto questo, insegnare a stare a galla affinchè un giorno quando anch’io starò per morire potrò dire come mio padre: Sono un uomo fortunato”.  

Francesco Abate al Deledda

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