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Cavallina, il portiere del Parma che ha rifiutato il fascismo

La storia di un soldato che diventa un libro grazie a Gherpelli. Era di Ferrara, ha giocato al Tardini ed è finito internato nello Stammlager (campo di prigionia delle truppe) catturato durante un rastrellamento dai tedeschi

Le gesta sportive di Renzo Cavallina con la maglia del Parma sono incastonate nel Museo Ernesto Ceresini, al Tardini. Le sue virtù di soldato e di cittadino italiano, invece, sono fissate in piazzale Risorgimento, davanti all'ingresso monumentale dello stadio Ennio Tardini, dove è stata posta una pietra d’inciampo a sua memoria. Renzo Cavallina per tanti è stato il 'Gatto magico', un bravo portiere. Per tutti, però, il suo nome ha un'eco profonda per aver saputo dire no al fascismo, rifiutandosi di entrare nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana. La sua storia rivive grazie a Lamberto Gherpelli, giornalista e scrittore di sport che ha messo in un libro (La scelta di Cavallina. Dal Tardini allo Stammlager) le vicissitudini di un uomo che ha vissuto in prima persona gli orrori dei campi di concentramento. Al termine di una buona stagione a difesa della porta crociata, è finito a Luckenwalde, deportato nello Stammlager (campo delle truppe), pochi mesi dopo aver esordito. Farà il suo esordio con la maglia del Parma il 15 novembre 1942 nella  vittoriosa trasferta di Imola (1-2). Nello stesso momento migliaia di suoi coetanei combattono, muoiono e cadono prigionieri degli Alleati in Egitto e in Russia. Si sentiva fortunato, Cavallina. Con la moglie Francesca e la piccola Ada, la figlia nata nel maggio del '43, viveva in una piccola palazzina in via Trento, vicino alla stazione di Parma. Vide passare diversi treni. Anche quello che lo ha riportato nell'esercito, dove è stato come sergente specialista del 4° reggimento contraerei di Mantova. Fino all'armistizio. Era stato richiamato alle armi il 1° luglio 1943 e ai primi di settembre anche Cavallina è costretto a vivere l’inferno della deportazione nello Stammlager III A di Luckenwalde. Catturato l’11 settembre, durante un rastrellamento nelle campagne del savonese, Cavallina viene fatto prigioniero dalle truppe tedesche e  rapidamente inviato in un centro di raccolta allestito sul territorio per organizzare l’invio nel nord e nell’est Europa dei soldati catturati. Cavallina e i restanti soldati, che rifiutano qualsiasi accordo, prendendo le distanze dalla Repubblica di Salò (RSI), vengono trasferiti con viaggi interminabili in campi per prigionieri di guerra gestiti dalla Wehrmacht, distribuiti in 17 distretti militari (Wehrkries) che coprono tutto il territorio controllato dal Reich, suddivisi tra lager per ufficiali (Offizierslager, Offlag) e per la truppa (Stammlager, Stalag): si tratta del più consistente gruppo di italiani trattenuti con la forza in Germania durante la guerra. Mentre il treno viaggia, stazione dopo stazione, Cavallina pensa in continuazione (come riferirà Gherpelli nel libro): "Chi mi dice che non capiterò anch’io nella situazione abbastanza fortunata e felice di questi detenuti?". Nellecarrozze non c’è luce, non c’è intimità. Non c’è cibo e non c’è acqua. Ogni esigenza fisiologica va consumata in piedi. Il treno non si ferma e anche se fermasse, non si potrebbe scendere. La cosa più impressionante è che i prigionieri devono affrontare in queste condizioni quasi 1.000 chilometri, prima di arrivare alla destinazione finale. A Luckenwalde Cavallina è sottoposto per oltre un mese a numerosi, interminabili interrogatori e minacciato di essere spedito a Mauthausen in quanto al Comando tedesco  risulta che le postazioni della 42° Batteria ed altre del 30° Gruppo siano state fatte saltare dalla Compagnia di Cavallina prima della fuga. In seguito viene trasferito allo Stalag III D di Berlino-Lichterfelde e decentrato presso il Comando di lavoro  n° 884 di Berlino-Wittenau, un grande campo nel quartiere di Berlino che ospita più di 1500 prigionieri. “Ricordo che non è stato possibile lavarci - aveva detto alla moglie Francesca - neppure sommariamente, per giorni interi, perché la tubatura dei bagni era gelata. Per tutto il tempo passato nel campo non mi sono mai lavato i denti. Mangiavamo di nascosto le bucce di patate fatte cuocere, fingevamo di stare bene per non essere ammazzati. Chi non poteva lavorare, veniva eliminato”. Grazie al racconto dei familiari, Gherpelli ha rivissuto l'orrore del lager e l'eroico tentativo di Cavallina e altri soldati di arrivare a 'essere uomini in mezzo a tanto orrore'. Ha giocato a calcio con altri internati, ha lavorato, ha vinto un buono premio grazie al quale ha ricevuto in cambio, dopo alcune settimane, 10 minestre e 5  sigarette. Alla fine della guerra è tornato in campo, al Parma. Al Tardini. Delle sue imprese sportive ne hanno parlato i giornali, della sua storia di deportato, Gherpelli, grazie ai racconti della moglie Francesca e al lavoro della figlia Ada. Adesso la sua memoria, grazie anche al lavoro dell'Istituto storico della resistenza dell'età contemporanea, rivive alle porte del Tardini. Storie di vite ritrovate con le quali ci si imbatte camminando. Storie di libertà e di scelte. 

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