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D'Aversa e Conte, avversari per un giorno

L'allievo che sfida il maestro: tra cultura del lavoro, cura maniacale di ogni aspetto e fame di vittoria

Il più contiano dei contiani è sicuramente Roberto D’Aversa. Se ci fosse un plebiscito, l’etichetta appiccicata al tecnico del Parma trarrebbe il suo valore da un’approvazione a maggioranza che ne riconoscerebbe il pieno diritto di possederla. Come un premio, che Bob si è guadagnato dopo anni di apprendistato – sul campo – cominciato nella stagione 2005-06, quando Roberto e Antonio vennero uniti sotto l’egida di Gigi De Canio, allora allenatore di un Siena che doveva salvarsi. E che si è salvato. L'uno, Conte, alla prima esperienza da vice allenatore, l'altro D'Aversa, che aveva ancora dentro l'ardore delle battaglie e giocava con il coltello tra i denti, era un  po' l'anima di quella squadra. Da allora è nato tra i due un legame indissolubile, collaudato negli anni e che si spinto oltre al campo. Che si è tradotto nella facile tentazione di imporre quasi con la forza delle idee un’altra ragione. Quella del contismo nella testa di D’Aversa.

Attenzione: non tanto nella tattica, quanto nella cura maniacale – proverbiale, che accomuna entrambi – nel preparare le partite, nel tentativo di non voler lasciare nulla di incalcolato, di ridurre al minimo il margine degli errori dettato anche dagli imprevisti, che si traduce di conseguenza nel voler tirare fuori da ogni singola anima che li circonda il massimo. Fuori e dentro al campo. Antonio Conte e Roberto D’Aversa si ritroveranno uno di fronte all’altro sabato, per la prima volta, alle 18 a San Siro: un bel teatro per consumare questo primo scontro tra due personalità fortissime, a tratti ingombranti. Che non saranno mai nemici ma solo avversari.

Sarà un’ostentazione continua della loro rabbia, della loro voglia di giocare la partita e di ‘muovere’ ogni loro pedina da una zolla all’altra di un campo di battaglia che verrà calpestato in ogni singola parte. Una partita nella partita tra due tecnici che allenavano già quando erano giocatori. L’essere leader – chiaramente con prospettive e mire diverse l’uno dall’altro – ha pervaso la carriera di entrambi, questa forza prepotente è stata da sempre la loro compagna di avventura esercitata chiaramente in palcoscenici diversi. Un capitano è tale quando mostra i gradi in campo e fuori. Se conte ha fatto il capitano tra Davids, Zidane e Deschamps beh, è certo che sia riuscito a farlo con merito e stoffa. La logica dominante che ha trasferito in mezzo al campo se l’è portata pure in panchina. Da dominante è diventata totalizzante, tant’è che quando è arrivato al Siena, su consiglio di Ventrone, allora preparatore atletico di De Canio, la prima cosa che ha chiesto al tecnico lucano è stata una precisazione sul suo ruolo: “Mister, non mi farà mettere solamente i birilli…”. Sintomo di una curiosità che in qualche modo diventava voglia di migliorarsi. Il lunedì, quando D’Aversa e compagni erano reduci da una sconfitta, ricevevano la telefonata di Antonio Conte, non quella di Gigi De Canio: un report sulle cose che non andavano e che non avrebbero dovuto ripetersi nella giornata successiva.

Questi insegnamenti D’Aversa evidentemente li ha fatti suoi: gli sono serviti, diciamo così, quando ha cominciato a fare l’allenatore. Il pretendere sempre – troppo – da lui stesso e dai suoi giocatori a volte lo rende ‘martellante’, insistente: c’è chi giura che sia solo tenacia e voglia di migliorarsi, ambizione che al massimo sfocia in frustrazione. Che poi si prova quando si viene sconfitti. Chi li conosce bene racconta che Conte e D’Aversa abbiano veramente un brutto rapporto con la sconfitta. E a vederli da fuori così scuri in volto quando le cose non vanno, c’è da credere a chi li racconta come due ossessivi. Nel primo contatto tra i due a Siena, scattò subito il feeling che solitamente intercorre tra due capitani, gente di pallone. Conte da vice conservava ancora qualche ‘abitudine’ del calciatore che era stato. E si rivedeva un pochino in D’Aversa, che leader in campo è sempre stato. Un tipo silenzioso in spogliatoio, uno che tendeva generalmente ad ascoltare tutti e poi a vomitare sul campo quello che aveva incamerato durante la settimana. Vittima di una trasformazione che per novanta minuti lo inquadravano come un moto perpetuo pronto a spronare sé stesso e gli altri. Uno che come Conte si è saputo esaltare nelle battaglie, uno da combattimenti, da elmetto. Da sciabola e quasi mai di fioretto, con tutti i luoghi comuni del caso che mirano a circondare personaggi ‘da guerra’ a volte vittima delle proprie ambizioni.

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Quelle che li portano a vivere una vita in tensione, a concedersi poco e a vivere di calcio praticamente sempre. Di competizione. Così sono sempre più rari i momenti in cui Conte e D’Aversa si incontrano davanti a un piatto di pasta all’astice, quella preferita dal tecnico nerazzurro, oppure davanti a dei ruspanti arrosticini, che Bob esporterebbe ovunque. “Tutti sanno che abbiamo un rapporto da tanto tempo, è padrino di mia figlia, potete capire il rapporto che c’è – ha detto D’Aversa in conferenza stampa dopo la vittoria con il Genoa - di amicizia e di rispetto; tutti e due sappiamo che sabato che ognuno cercherà di portare a casa il risultato al di là del rapporto che c’è, questo è ovvio”. E sarà battaglia tra chi vuole vincere. Sempre.

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