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Osorio, la muraglia che ha stupito: dal cemento di Barinas al prato del Tardini

Il difensore ha guardato a lungo Lucio, ex Inter, nel suo quartiere si è conquistato un soprannome importante e vuole mantenerlo in Serie A

Il calcio nel Venezuela ha sempre avuto un ruolo secondario. A Caracas e dintorni solitamente hanno altro a cui pensare. Si combatte per la vita, per rimanere in piedi o per non finire seduti per sempre dietro una sparatoria o rapina. Tra gli stati che meno ha risentito dell’importazione del football, c’è proprio la terra di Bolivar, che ha cominciato ad assaggiare il calcio nel secondo dopoguerra, quando molti superstiti del vecchio continente devastato dagli echi delle bombe hanno cercato di sottrarsi agli squarci profondi delle esplosioni. Trovando ristoro nell’America latina, facendo del calcio l’elemento d’unione che rinsaldasse l’orgoglio patriottico di un popolo emigrato dall’altra parte del mondo. Tempi lontani, ma non dimenticati affatto. Quando Yordan Osorio è nato il clima era diverso.

Già da tempo. Barinas, la cittadina a cinquanta chilometri da Sabaneta era intrisa di Chavismo. Il comandante Hugo era nato proprio lì, i suoi ideali avevano fatto proseliti. Arrivando fino alla capitale dell’omino stato. La famiglia di Osorio – come gran parte dei venezuelani – ne aveva subito l’onta, si era fatta cogliere a metà tra il fascino delle idee e l’incertezza che regna ancora oggi in Venezuela. Una famiglia tranquilla, mamma impegnata con le faccende di casa, padre architetto ma con in testa il calcio. Osorio ha tre fratelli e una sorella, tutti giocano a calcio. E’ stato il padre che ha permesso a Yordan di muovere i primi passi sognando un pallone. A Barinas, la prima squadra di Osorio è stata il Palacido Fajardo, il calcio lo ha preso subito, tirandolo fuori dai guai. Gli piaceva fare il centrocampista, giocava da interno o davanti alla difesa. Il suo fisico da sempre imponente gli ha permesso di fare anche il mediano. Un’esperienza che gli è servita, anche perché adattarsi rapidamente in Europa significa anche saperci fare con i piedi. Piedi che non avevano scarpe da indossare.

Quando non era più un bambino, all’età di 14 anni, si ritrovò a giocare in un torneo di ‘piedi scalzi’, ragazzi che se le davano su un campo di cemento. C’era anche Osorio tra quelli che non avevano abbastanza denari per reperire un paio di scarpe. Gliele ha date l’allenatore del Fajardo. Che a 17 anni lo ha visto andare allo Zamora, squadra della quale è rimasto tifoso. Ad aspettarlo c’era Stiffano, allenatore d’origine italiana che gli ha cambiato la carriera: serviva un difensore centrale, gli ha fatto fare un passo all’indietro. Non si è più spostato da lì, ha cominciato a seguire le direttive del tecnico, ha visto qualche filmato di Lucio, ex Inter. Giocare con continuità tra i grandi, crescere e segnare qualche gol gli ha spalancato le porte dell’Europa. Tondela, poi Porto, scuola di grandi difensori. Chiedere a Bruno Alves, se serve. Guimaraes e Zenit lo hanno cesellato, prima di restituirlo al Porto, dove ha giocato poco nelle ultime due stagioni. Il Parma è arrivato nel momento giusto. Carli e Lucarelli hanno visto nel gigante di Barines il difensore dei prossimi 4, 5 anni, uno su cui impostare le basi per una ripartenza rapida.

Contro la Fiorentina ha mostrato subito i suoi tratti distintivi: rapidità, dinamismo, prestanza fisica e anche buona tecnica. In un paio di occasioni è stato preso dall’ansia dell’anticipo, scappando in avanti troppo presto e facendosi dribblare da un giocatore come Ribery, salvo recuperare posizione. Ha conservato qualche tratto dell’irruenza latina, ma si farà con un buon maestro come Liverani. La pausa con il Porto e la mancata continuità lo hanno fatto maturare, adesso è consapevole dei suoi mezzi, tornerà a essere la muraglia, come lo chiamano in Venezuela. Nel quartiere di San Juancito, a Barines, lo chiamano tutti così.

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